Altari e simulacri.
Differenza e ripetizione nella pittura di Marco Demis
di Ivan Quaroni
Catalogo personale GiaMaArt Studio
“La visione che in tal modo otteniamo, sia della forma, sia delle sue affezioni, per un atto di apprensione della mente o dei sensi, è la forma stessa del corpo solido risultante dalla presenza compatta del simulacro o dai residui di esso”
(Epicuro – Lettera ad Erodoto)
L’ossessione è un pensiero che ritorna continuamente in modo assillante, penoso, una condizione esistenziale che può trasformarsi in patologia e coazione a ripetere. Nell’arte sono molti i casi in cui l’ossessione è divenuta un modus operandi, una procedura di ricerca formale dove la variazione sul tema genera nuovi spunti e significati. Amedeo Modigliani, con i suoi numerosi ritratti di Jeanne Hébuterne, sua modella e amante, mette a punto un’ideale di bellezza arcaica, influenzata dagli idoli e dalle maschere primitive. Più indietro nel tempo, Sandro Botticelli aveva coltivato un’adorazione per Simonetta Vespucci, che aveva ritratto molte volte in vita e perfino post mortem, fino a farne il soggetto del suo capolavoro del 1485, La Nascita di Venere. Per la giovane, morta di tisi a soli ventidue anni e amata anche da Giuliano De Medici che la fece immortalare in un poemetto delle Stanze di Angelo Poliziano, Botticelli aveva sviluppato una vera e propria mania, tanto da chiedere di essere seppellito ai suoi piedi nella Chiesa di Ognissanti, patrocinata dalla famiglia Vespucci.
L’ossessione, sotto forma di ricorrenza di soggetti, attraversa tutta la storia dell’arte moderna. La ritroviamo nelle nature morte di Giorgio Morandi, nel Monet più tardo e velleitario dei Covoni, delle Cattedrali e delle Ninfee, nelle plurime versioni della Camera da letto di Arles di Vincent Van Gogh.
Ruota attorno a un assillo, almeno iconograficamente, anche il lavoro di Marco Demis, che reitera il motivo della bellezza pubescente come una sorta di matrice originaria, un modulo da ripetere ad libitum. Le sue bambine hanno l’aspetto di bambole, di manichini assenti, perfino ieratici.
La ricorrenza tematica produce nella pittura dell’artista uno scarto, un dispendio entropico che genera quella che Derrida definisce “differenza irriducibile”. La differance di Derrida attiene all’impossibilità del linguaggio di esprimere l’essere se non attraverso tracce, che sono appunto il portato della ripetizione.
Insistendo sul motivo delle sue aristocratiche vergini dalla pelle nivea e dagli eleganti abiti retrò, di fatto, Demis costruisce tale possibilità. Il suo non è un lavoro attorno all’identità – poiché le sue bambole ne sono prive – e nemmeno sulla serialità. Piuttosto, esse svolgono la funzione di simulacri, idoli che non rimandano ad alcun significato ulteriore.
Baudrillard definisce il simulacro (eidôlon) una “verità che nasconde il fatto che non ne ha alcuna”, mentre a proposito delle sue bambole Marco Demis parla di una “intima fissità, priva di referente”. È, infatti, nella variazione, semmai, che si formula la possibilità di un referente, di un significato, nel confronto tra simulacri apparentemente simili il differenziale si trasforma in bellezza. In una recente intervista, l’artista dichiara che “la confidenza col linguaggio nasce dalla ricorrenza” poiché “conoscere è ri-conoscere” e, poco dopo, afferma che “la bellezza si evince da un criterio di confronto”.
Già qualche tempo fa, leggendo il lavoro di Marco Demis, avevo notato che esso “ruota attorno a un’assenza, a un vuoto prodotto dalla sottrazione d’espressività” e definivo questo artificio retorico come “un espediente che ha come effetto la creazione di un mistero e quindi di una seduzione che obbliga l’osservatore a colmare questo vulnus attraverso l’immginazione”[1]. Così, se da un lato i suoi soggetti negano la possibilità di un referente, di un nesso soggiacente, dall’altro, la loro reiterazione contribuisce a instillare nel riguardante una sensazione (più che un sentimento) di confidenza.
È, infatti, l’apparente serialità e quindi la visione consequenziale delle sue opere a produrre una relazione con l’osservatore. Senza enumerazione, la “differenza” diventa “indifferenza”.
Non sono solo le bambole–bambine ad entrare nel loop della ripetizione, ma anche altri oggetti, segni e tracce che contribuiscono a creare un senso di “familiarità”. Oggetti come vecchi giocattoli, gabbie o voliere, cancelli di ferro battuto diventano attributi del soggetto, estensioni periferiche del simulacro, un po’ come i simboli che accompagnano la rappresentazione di divinità pagane e santi cristiani. Si tratta di oggetti privi di autonomia, feticci referenziali che hanno una funzione decorativa.
Marco Demis è un architetto, per definizione interessato ai rapporti tra forma e funzione, tra struttura e ornamento. Nel suo monumentale De Architectura, Vitruvio attribuiva all’ornato un ruolo essenziale, a patto che non si trasformasse in decorazione ridondante e sfarzosa. Più tranciante a tal proposito era Adolf Loos, per il quale “ornamentare” significava “insozzare i muri con disegni osceni”. Invece, per Henri Focillon la decorazione è “il primo alfabeto del pensiero umano alle prese con lo spazio”. Nelle opere di Demis gli oggetti decorativi sono, oltre che attributi del soggetto, anche elementi che definiscono il paesaggio, il quale è esso stesso oggetto privo di autonomia. Il cielo eternamente plumbeo, gli alberi nodosi, come arabeschi fossili e il terreno coperto di brina sono estensioni del simulacro, ma è pur vero che contribuiscono a creare un’atmosfera malinconica, confermata da una gamma cromatica limitata prevalentemente ai soli toni del blu e del grigio.
Da Vasari in poi la ricerca pittorica occidentale si è biforcata nelle due correnti del disegno e del colore, che facevano capo rispettivamente all’esemplarità di Michelangelo e Tiziano. Nel suo “Dialogo della pittura”, pubblicato a Venezia nel 1548, il critico Paolo Pino, un pittore di esigua fama, affermava per bocca di uno dei protagonisti del suo scritto, che se Michelangelo e il Tiziano fossero un corpo solo sarebbe personificato “il Dio della pittura”[2]. Nella pittura di Marco Demis la propensione tonale si sposa con la tradizione del disegno, secondo una linea che da Botticelli approda fino a Modigliani. Le figure disegnate dall’artista sono, infatti, perfettamente contornate, con linee che impediscono al soggetto di sconfinare atmosfericamente nello spazio circostante. Si tratta di una sensibilità che risponde all’esigenza di mantenere i soggetti nel campo dell’idealità, in una dimensione impalpabile, epifanica. Le sue bambine non si fondono mai con ciò che le circonda, ma anzi ogni oggetto è circoscritto sul piano semantico, poiché si offre allo sguardo come un’apparizione impermanente. Il meccanismo attorno al quale ruota il linguaggio di Demis è quello dell’evocazione, intesa come pratica che sottende un’impalpabile rete di connessione tra le cose, qualcosa che “chiama” l’invisibile nella struttura del visibile. Evocazione significa, infatti, “chiamare fuori” o meglio “chiamare da fuori” qualcosa che suscita un senso d’insopprimibile nostalgia. Come gli altari e le are sacrificali, le immagini dipinte dall’artista sono soglie dimensionali, ambiguamente sospese tra il mondo materiale e quello immateriale. In questo limen non vi è possibilità di narrazione, ma solo pura potenzialità. Guardando queste figure ci è impossibile immaginare un racconto, delineare un episodio. Demis sembra occultare ogni traccia biografica, ogni segno di vissuto, congelando la rappresentazione in una sfera perfetta quanto l’Empireo dantesco. E tuttavia, questo regno d’immobilità ieratica sembra subire ora una lieve increspatura. Qualcosa finalmente imprime un moto ai corpi. Una sottile vibrazione percorre le linee degli idoli e le posture divengono più plastiche, sinuose, le figure si ammorbidiscono e infine si avverte, come nel mito di Pigmaglione, un anelito a trasmutare il simulacro in carne viva. [1] Ivan Quaroni, Italian Newbrow, pag. 111, Giancarlo Politi Editore, Milano, 2010.
[2] Julius Shlosser Magnino, La Letteratura artistica, pag. 242, La Nuova Italia Editrice, 1996, Scandicci (Firenze).
La via delle forme
di Ivan Quaroni
Catalogo personale Anfiteatro Arte
Vanilla Edizioni
In questo mondo tutto è forma e la vita stessa è un continuo mutare e defluire di forme. Quest’idea espressa da Balzac, ha trovato in Henri Focillon un fervido sostenitore. Per lo storico dell’arte francese, la forma incarnava e rendeva visibile il significato delle cose, esplicitandone la funzione o il destino. La descrizione delle forme diventava, in tal modo, un metodo oggettivo e non opinabile di trattare la materia artistica, che metteva lo storico al riparo dagli errori di un’ermeneutica soggettiva e irrazionale.
Il pensiero di Focillon, così com’è compendiato nel suo celebre “Vie des formes”, insisteva nel considerare l’opera come una forma sensibile, nata dal lavoro manuale e dall’applicazione della tecnica, intesa non come reiterazione abitudinaria di regole, ma come prassi capace di garantire alla mano e alla mente dell’artista una maggiore libertà creativa.
Le forme sono costrutti autonomi, che costituiscono l’unità di base dell’opera d’arte, esattamente come i morfemi nella grammatica di una lingua. Ma quando parliamo di forme, parliamo, inevitabilmente, anche di significati. Un’artista che non sia anche un formalista omette d’interessarsi al significato stesso di ciò che fa.
Marco Demis è, senza dubbio, un pittore formalista. Osservando le sue opere, si ha l’impressione che egli non sia affatto interessato alla registrazione di fatti ed eventi presenti e che il rapporto con il nostro tempo sia per lui qualcosa di pleonastico o addirittura irrilevante.
È un atteggiamento che non dipende dalle ambientazioni inequivocabilmente retrospettive dei suoi dipinti, poiché nemmeno il passato è l’oggetto della sua indagine. Il tempo e la narrazione, fattori fondamentali di molte delle attuali ricerche neofigurative, non sono presi in considerazione. Si tratta, infatti, di elementi dinamici, sottoposti al dominio della trasformazione e corruzione di tutte le cose. Nei dipinti di Demis, invece, tutto è immobile, cristallizzato, circoscritto con assoluta precisione. Le figure umane, gli oggetti, le architetture che abitano, anzi che “occupano” (poiché abitare è già un’azione dinamica) lo spazio dei suoi dipinti, corrispondono a simulacri, significanti, forme appunto. Il referente, il significato, il contenuto emotivo viene eliso dall’artista, omesso o sottaciuto come un terribile mistero. E tuttavia, le forme, con la loro eloquente evidenza, continuano a produrre sensi, espressioni, concetti. In quanto morfemi, come affermava Focillon, esse rilasciano significati e intrecciano tra loro silenti relazioni. Proprio sulla trama di rapporti e sulla corrispondenza tra simulacri, tra figure, l’artista milanese costruisce la struttura sintattica della sua pittura, che, nonostante la presenza di locuzioni preziose, perfino affettate, riesce asciutta, concreta, quasi impenetrabile.
Marco Demis è un artista difficile da leggere, finanche enigmatico, perché pone, tra le sue opere e l’osservatore, una distanza incolmabile.
I suoi dipinti non rivelano nulla della sua biografia, non esprimono contenuti emotivi. Benché virate in una gamma ridotta di cromie, che spazia dai grigi ai blu filtrando ogni sintagma della sua grammatica attraverso una lente di vaga, opalescente malinconia, essi si offrono al nostro sguardo incantato come gli equivalenti visivi di un enunciato filosofico o di teorema matematico.
Demis è un pittore freddo, razionale, direi quasi ossessivo nel reiterare temi e soggetti che solo saltuariamente arricchisce. C’è, infatti, in lui una sorta di parsimonia iconografica, che appare come il segno di una strenua volontà di concentrazione e di focalizzazione su pochi, meditati, lemmi.
Ciò che è vibrante, mosso è, piuttosto, il clima tonale della sua tavolozza, che è forse l’elemento più sensitivo della sua ricerca. Il resto è fatto di linee, di perimetri che staccano le figure dal contesto, fino a delimitarle in superfici isolate. L’insieme risulta, così, una sommatoria di strutture autonome, una conformazione di ordinati affastellamenti visivi, verso i quali l’osservatore è autorizzato ad esercitare il ruolo d’interprete e produttore di significati. L’astenia espressiva dell’artista è una scelta di campo, una predilezione verso l’aspetto squisitamente linguistico della pittura, che delega ad altri la spinosa questione ermeneutica. In definitiva, per Marco Demis, l’eloquio è già una prerogativa delle forme, mentre l’impulso che le origina resta gelosamente custodito nella coscienza individuale.
Marco Demis
di Glenda Cinquegrana
Lux Revolution, La Stampa
Le fanciulle di Demis costituiscono immagini archetipiche dell’infanzia stessa, vista quale condizione primigenia dell’individuo, ovvero come dimensione pura, senza condizionamenti: ingenuo è, secondo l’accezione latina, originario, naturale.
Le fanciulle – bambole sono ritratte in un particolare momento che è di sospensione, nello spazio e nel tempo. Esse sono rappresentate in uno stato nascente, ancora nutrite della placenta: immaginate come forme essenziali, sono concepite per restare ancora per un attimo immobili nella stanza incorrotta della pittura.
“L’altro giorno, in un caffè, un adolescente, solo, esplorava con gli occhi tutta la sala; a tratti il suo sguardo si posava su di me; in quel momento avevo la certezza che egli mi stesse guardando senza tuttavia essere sicuro che mi stesse vedendo. Stortura inconcepibile: com’è possibile guardare senza vedere?” (Roland Barthes).
Le figure infantili ritratte da Demis sono esseri umanamente imprigionati in se stessi, colti in uno stato di solitudine, quasi come fossero monadi chiuse, prive di spiragli di comunicazione con il mondo esterno. Lo sguardo che gettano sul mondo sembra insondabile, neutro.
La solitudine è per Demis un momento di sospensione storica: le bambole bambine, ermetiche e misteriose nella loro fissità, come nelle atmosfere delle pitture sironiane e dechirichiane, non rivelano a chi le guarda alcuna emozione.
“In effetti, egli non guarda nulla; trattiene dentro di sé il suo amore e la sua paura: ecco, lo Sguardo è questo.” (Roland Barthes).
La vuota espressività delle bambole di pezza è nella pittura di Demis paradigma della differenza che intercorre fra il guardare verso l’esterno ed il vedere verso l’interno. La comunicazione che queste creature instaurano con il mondo può essere interpretata come profondità di superficie (Deleuze): lo sguardo è un atto incompiuto, azione che si manifesta nel non guardare nulla. Lo sguardo non è altro che ripiegamento dentro di sé, come un trattenere e serbare dentro l’emozione.
La profondità di superficie è una condizione ricreata tramite una raffinata ricerca sul colore – non colore bianco, la cui ottusa espressività è volutamente ricercata: si tratta di un colore che solo raramente raggiunge le lievi tonalità pastello del giallo e del rosa antico. La sua matericità, ottenuta tramite la sovrapposizione di colate di materiale primario, punta dritto all’evocazione.
Questa sofisticata poetica pittorica trova i suoi antecedenti in una linea di discendenza, propria della pittura italiana, che da Botticelli conduce sino a Modigliani.
Nei disegni, invece, la scrittura pittorica da un lato si fa più briosa e vivace, dall’altro incespica volentieri nell’incertezza del tratto propria dei disegni infantili. L’ironia licenziosa di questi lavori si apre volentieri a contenuti più diversi e sfiora, di tanto in tanto, lo spirito diretto, sensualmente ironico, dei manga giapponesi.
Apollinea
di Ivan Quaroni
Catalogo bipersonale Area/B
Quando nel 1871 Friedrich Nietzsche pubblica La Nascita della Tragedia Greca, introduce, per la prima volta, una diade concettuale – quella tra apollineo e dionisiaco – che in seguito riscuoterà un grande successo critico.
Per il filosofo tedesco, l’apollineo attiene alla sfera dell’astrazione, declinandosi attraverso le arti figurative in immagini chiare e distinte, nitide e serene, mentre, al contrario, il dionisiaco è il campo dell’ebbrezza e delle pulsioni irrazionali che si esprimono al meglio attraverso la musica. A quell’epoca, Nietzsche non poteva immaginare che le arti figurative, di li a qualche decennio, avrebbero attraversato un periodo di caotica e fertile rivoluzione, prima con i movimenti avanguardisti, poi con le evoluzioni formali e stilistiche occorse tra le due guerre. Se avesse scritto il suo celebre saggio più tardi, sarebbe stato costretto a rivedere alcune sue affermazioni. L’arte contemporanea, infatti, non solo ha accolto ogni tipo d’impulso dionisiaco e irrazionale, ma lo ha addirittura canonizzato in movimenti come l’Espressionismo, il Surrealismo, l’Action Painting, l’Espressionismo Astratto, Fluxus e molto altro ancora.
Dalle Avanguardie in avanti, l’ingresso del dionisiaco nel campo delle arti figurative, poi documentato da Jurgis Baltrušaitis anche in riferimento all’arte antica e medievale, avrebbe aperto le porte alla vessata questione che contrappone, ancora oggi, due distinti approcci creativi. Il primo, di matrice classica, concepisce l’opera come il prodotto di una volontà chiarificatrice, di un progetto estetico ordinato, che delinea forme limpide e definite, illuminate dal sole della ragione. Il secondo, invece, è espressione del lato oscuro, irrazionale, generatore d’immagini ambigue e indefinite, in cui si riflette l’elemento caotico, spontaneo e vitalistico dell’esistenza.
Marco Demis è un pittore puro, ossessionato dalle questioni formali e dalla definizione di una modalità espressiva rigorosa e puntuale. Il suo linguaggio è, infatti, il frutto di una elaborazione saputa, che riduce al minimo l’eventualità d’imprevisti ascrivibili all’ambito del fortuito e dell’accidentale. E, infatti, imbriglia il magma emotivo che soggiace alle sue creazioni nella rappresentazione di un mondo terso e cristallino, popolato di forme schiette, ordinate e di colori che variano lungo una ristretta gamma di azzurri e grigi. Nei suoi dipinti, ogni cosa, dalle case ai nudi femminei, dagli alberi agli oggetti, appare filtrata da uno sguardo geometrico, da una griglia che purifica e, insieme, dissangua le forme, costringendole in sicure linee perimetrali.
Si tratta di un processo di sintesi e di mondatura, necessario alla definizione di una dimensione aulica, entro cui disporre immagini ideali, private d’ogni contingenza. Tuttavia, sarebbe erroneo interpretare i suoi dipinti come proiezioni di un lontano universo platonico. Essi sono, piuttosto il risultato di un processo di sublimazione della realtà. Si ha quasi l’impressione che Demis cerchi nella pittura una tregua che la vita raramente concede. E, così, plasma modelli di una femminilità curiale, tanto eterea quanto impalpabile, corpi da sinopia neoclassica, ma, se possibile, di un erotismo ancor più raggelato. Poi costruisce paesaggi bucolici di matematica perfezione, in cui dissemina ritmi e simmetrie che circoscrivono la vegetazione in assetti ordinati. Gli stessi, al fine, che rastremano i tetti delle case e che cadenzano le sbarre di gabbie e voliere. Perché Marco Demis è, in definitiva, un artista innamorato della forma chiusa, un concettuale post litteram, che ha scoperto il segreto per regolare il caos, e trasformare le intemperanze emotive in una visione di placida bellezza e di languida, esangue voluttà.
L’infanzia nelle opere di Marco Demis
Intervista di Elena Ovecina
Artitude. Premio Italian Factory, First Gallery
L’universo che circonda i soggetti di Marco Demis (quelle piccole bambine-bambole introspettive e indecifrabili) è finito e circoscritto, su misura, è come una bolla che racchiude un piccolo spazio irraggiungibile, anche se sembra vicino e stranamente familiare. Come una casa di bambole. Microcosmi, grumi di poesia e incertezze. Ma all’interno di questi disegni e dipinti, tutto ha una sua logica, in un gioco che è insieme una recherche du temps perdu, con tanto di rimandi autobiografici che fanno capolino dai diversi angoli dei lavori. La singolare gamma cromatica, fatta di soli tre o quattro colori al massimo, è legata all’abitudine dell’artista di attribuire un colore alle persone e al periodo. Il blu degli ultimi lavori introduce una “nota” diversa, creando un filtro, una sospensione.
L’intervista.
Sembra un segnale importante il fatto che molti giovani artisti oggi indagano sul tema dell’infanzia. In un mondo che corre impazzito chissà dove, con tutte le paranoie mediatiche che abbiamo, sembra sia tanto sentito, da parte di molti, il bisogno di rovistare tra vecchi ricordi, di ritrovare un qualcosa di immutato o immutabile. Da cosa credi sia determinato questo bisogno? Dall’incertezza del domani, dai cambiamenti ai quali siamo costretti ad adeguarci?
Mi interessa l’estetica dei media, il mio lavoro nasce in parte da una riflessione per antitesi alla cultura dell’immagine. A questo proposito, ho trovato illuminanti gli scritti di Baudrillard sul sentire e sulla sensualità, sulla differenza fra l’opera che muore con la sua apparizione e l’opera che si rinnova e seduce scoprendosi in un gioco indefinito di veli. L’opera d’arte è sempre attuale nel suo rinnovarsi, nel concedersi ad un sentire universale che va sempre scoperto, in un modo che non concerne lo stupore fine a se stesso. Di contro, la cultura dell’immagine ci offre un’analisi ossessiva, inutilmente ostentata, di dettagli incoerenti. Contrapponendosi a questa forma di voyeurismo, l’infanzia nell’arte sembra riconquistare la sua distanza, conservando la sua ingenuità nel suo essere “altrove”, poiché, almeno idealmente, l’occhio del bambino è stupito, ingenuo. Ed “ingenuus” è parola latina che deriva da “nativo”, “originario”, “naturale”, “libero”. Lucrezio parla di ingenui fontes per indicare le sorgenti native, Properzio di ingenuus color per il colorito naturale, Livio chiama ingenui i nati liberi, quelli che possono vantare un padre.
Nei lavori recenti, i soggetti sono sempre prevalentemente femminili, ma queste ragazze sono adolescenti e più aristocratiche. Rimane, però, la staticità. La composizione prediletta è quella con il soggetto posizionato al centro, una figura raccolta, ieratica quasi. Ancora, l’atmosfera ricorda le foto “posate” dei primi anni del Novecento: le bambine immobili, in piedi o sedute, ma sempre molto composte.
Utilizzo elementi simbolici, senza dar luogo ad una narrazione, rivelare un tempo o un contesto. Apprezzo l’arte distante e monumentale, se dai codici traspare una tensione, una sorta di vitalismo costretto all’interno di una forma. Le foto d’epoca mi intrigano per la mancanza di spontaneità delle pose e per il naturale distacco con l’osservatore e la macchina.
Marco Demis
di Ginevra Bria
Personale The Studio – Glenda Cinquegrana
Exibart on paper, n.53
Le pareti sono come un taccuino, dentro un taccuino, dentro un taccuino… Accurate pagine bianche segnano volti di bambole come confini di donna. Un continuo, promiscuo viaggio tra quel che realmente c’è e quel che non si deve vedere…
In galleria, sulla parete che accompagna le scale poste tra i due diversi ambienti, sono stati appesi all’intonaco nudo cinquanta dipinti di piccole dimensioni. Cinquanta oli su carta, in bianco e nero, che lasciano solamente una delicatissima traccia di quello che potrebbe rappresentare il vero motivo di questa personale, e cioè il senso per la pittura sottomesso all’istinto forzato della figurazione. La pura energia narrativa di questo spurio impianto stilistico depone i propri punti di forza a favore del disvelamento, quell’apertura dello sguardo che da solo diventa motore dell’intero percorso allestitivo. Rag dolls, nel suo complesso, è infatti una personale lieve – seguendo l’etimo originario che trae le proprie radici dal sostantivo latino levitas, grazia morale e leggerezza di concetto – all’insegna della promessa, quella fatta da questi lavori, di compensare con la crescita del sé la nascita prematura di Mademoiselle Recherche. È più che logico intuire che Marco Demis, attraverso i lavori esposti, sia rimasto concentrato su un solo, inossidabile punto di partenza creatore, senza spingersi a intuirne alcun modello teorico-formale conseguente. Le figure femminili che dipinge assomigliano a un tracciato netto e continuo di volti animati, soggetti illustrativi; fluide silhouette che dirigono i loro piccoli sguardi verso sogni rinchiusi poco più in là della loro gabbia prospettica di dotazione. Il pregio di queste rigide intuizioni compositive, di queste siberiane bambole di pezza rilascia a mano a mano, durante la visita, la sua genialità improvvisa, assumendo il carattere unico dell’appunto di viaggio: quello dato dall’essenzialità risolutrice della descrizione. I deliziosi soggetti esposti, infatti, carichi dall’intensità retrò di cui solo un artista radicale può restituirne al meglio l’intento primitivista, contengono al loro interno la trasparenza dello sguardo. La chiarezza che sola appartiene al registro scopico della fantasia, attraversata come una terra incolta che, da secoli e secoli, uomini e uomini ancora continuano a distruggere per costruire i loro castelli.
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