Oreadi

di Rebecca Delmenico

Exibart - Personale Galleria Contempo, Pergine

E' un paesaggio monumentale quello che fa da scenario alle opere di Marco Demis. Una montagna imponente, solenne e silenziosa si erge a cingere uno spazio puramente ideale in cui appaiono, come fulgide visioni, le ninfe. Esse incarnano lo spirito di questa montagna, terreno simbolico dove sono incastonati i soggetti, a cui i rami degli alberi con le loro trame fanno da cornice.

Le protagoniste rimandano alla bellezza classica con riferimento alla mitologia greca, alle ninfe, abitatrici delle fonti, dei fiumi, dei laghi (naiadi), delle foreste (driadi o amadriadi), dei monti (oreadi) e identificate dai Romani come divinità prossime alle acque e alle sorgenti. Esseri che paiono sospesi in un empireo in sé compiuto, colti in un istante dilatato senza fine, monadi al contempo solitarie e immerse nel tutto.

Ogni rapporto col presente e’ fuggito, le figure femminili sono emblema di valori eterni ed immutabili, contrarie all’attuale narrazione fluida e pervasiva del disincanto, allo sprofondamento del mondo contemporaneo in una immanenza che muore con la sua apparizione

Altari e simulacri

Differenza e ripetizione nella pittura di Marco Demis

di Ivan Quaroni

Monografia - Personale Giama Art Studio, Vitulano

"La visione che in tal modo otteniamo, sia della forma, sia delle sue affezioni, per un atto di apprensione della mente o dei sensi, è la forma stessa del corpo solido risultante dalla presenza compatta del simulacro o dai residui di esso"

(Epicuro – Lettera ad Erodoto)

L’ossessione è un pensiero che ritorna continuamente in modo assillante, penoso, una condizione esistenziale che può trasformarsi in patologia e coazione a ripetere. Nell’arte sono molti i casi in cui l’ossessione è divenuta un modus operandi, una procedura di ricerca formale dove la variazione sul tema genera nuovi spunti e significati. Amedeo Modigliani, con i suoi numerosi ritratti di Jeanne Hébuterne, sua modella e amante, mette a punto un’ideale di bellezza arcaica, influenzata dagli idoli e dalle maschere primitive. Più indietro nel tempo, Sandro Botticelli aveva coltivato un’adorazione per Simonetta Vespucci, che aveva ritratto molte volte in vita e perfino post mortem, fino a farne il soggetto del suo capolavoro del 1485, La Nascita di Venere. Per la giovane, morta di tisi a soli ventidue anni e amata anche da Giuliano De Medici che la fece immortalare in un poemetto delle Stanze di Angelo Poliziano, Botticelli aveva sviluppato una vera e propria mania, tanto da chiedere di essere seppellito ai suoi piedi nella Chiesa di Ognissanti, patrocinata dalla famiglia Vespucci.

L’ossessione, sotto forma di ricorrenza di soggetti, attraversa tutta la storia dell’arte moderna. La ritroviamo nelle nature morte di Giorgio Morandi, nel Monet più tardo e velleitario dei Covoni, delle Cattedrali e delle Ninfee, nelle plurime versioni della Camera da letto di Arles di Vincent Van Gogh.

Ruota attorno a un assillo, almeno iconograficamente, anche il lavoro di Marco Demis, che reitera il motivo della bellezza pubescente come una sorta di matrice originaria, un modulo da ripetere ad libitum. Le sue bambine hanno l’aspetto di bambole, di manichini assenti, perfino ieratici.

La ricorrenza tematica produce nella pittura dell’artista uno scarto, un dispendio entropico che genera quella che Derrida definisce “differenza irriducibile”. La "differance" di Derrida attiene all’impossibilità del linguaggio di esprimere l’ essere se non attraverso tracce, che sono appunto il portato della ripetizione.

Insistendo sul motivo delle sue aristocratiche vergini dalla pelle nivea e dagli eleganti abiti retrò, di fatto, Demis costruisce tale possibilità. Il suo non è un lavoro attorno all’identità - poiché le sue bambole ne sono prive – e nemmeno sulla serialità. Piuttosto, esse svolgono la funzione di simulacri, idoli che non rimandano ad alcun significato ulteriore.

Baudrillard definisce il simulacro (eidôlon) una “verità che nasconde il fatto che non ne ha alcuna", mentre a proposito delle sue bambole Marco Demis parla di una “intima fissità, priva di referente”. È, infatti, nella variazione, semmai, che si formula la possibilità di un referente, di un significato, nel confronto tra simulacri apparentemente simili il differenziale si trasforma in bellezza. In una recente intervista, l’artista dichiara che “la confidenza col linguaggio nasce dalla ricorrenza” poiché “conoscere è ri-conoscere” e, poco dopo, afferma che “la bellezza si evince da un criterio di confronto”.

Già qualche tempo fa, leggendo il lavoro di Marco Demis, avevo notato che esso “ruota attorno a un’assenza, a un vuoto prodotto dalla sottrazione d’espressività” e definivo questo artificio retorico come “un espediente che ha come effetto la creazione di un mistero e quindi di una seduzione che obbliga l’osservatore a colmare questo vulnus attraverso l’immaginazione”[1]. Così, se da un lato i suoi soggetti negano la possibilità di un referente, di un nesso soggiacente, dall’altro, la loro reiterazione contribuisce a instillare nel riguardante una sensazione (più che un sentimento) di confidenza.

È, infatti, l’apparente serialità e quindi la visione consequenziale delle sue opere a produrre una relazione con l’osservatore. Senza enumerazione, la “differenza” diventa “indifferenza”.

Non sono solo le bambole–bambine ad entrare nel loop della ripetizione, ma anche altri oggetti, segni e tracce che contribuiscono a creare un senso di “familiarità”. Oggetti come vecchi giocattoli, gabbie o voliere, cancelli di ferro battuto diventano attributi del soggetto, estensioni periferiche del simulacro, un po’ come i simboli che accompagnano la rappresentazione di divinità pagane e santi cristiani. Si tratta di oggetti privi di autonomia, feticci referenziali che hanno una funzione decorativa.

Marco Demis è un architetto, per definizione interessato ai rapporti tra forma e funzione, tra struttura e ornamento. Nel suo monumentale De Architectura, Vitruvio attribuiva all’ornato un ruolo essenziale, a patto che non si trasformasse in decorazione ridondante e sfarzosa. Più tranciante a tal proposito era Adolf Loos, per il quale “ornamentare” significava “insozzare i muri con disegni osceni”. Invece, per Henri Focillon la decorazione è “il primo alfabeto del pensiero umano alle prese con lo spazio”. Nelle opere di Demis gli oggetti decorativi sono, oltre che attributi del soggetto, anche elementi che definiscono il paesaggio, il quale è esso stesso oggetto privo di autonomia. Il cielo eternamente plumbeo, gli alberi nodosi, come arabeschi fossili e il terreno coperto di brina sono estensioni del simulacro, ma è pur vero che contribuiscono a creare un’atmosfera malinconica, confermata da una gamma cromatica limitata prevalentemente ai soli toni del blu e del grigio.

La questione della riduzione cromatica è un altro elemento fondante dell’opera di Demis, che, evidentemente, oltre a disporre sulle sue rappresentazioni un filtro malinconico, esplora la dimensione evocativa di certa pittura tonale, quella stessa che da Giovanni Bellini, passando per Giorgione e Tiziano, traccia i confini di un certo modo, tipicamente veneto di “sentire” la pittura. Il tono cromatico è quindi un espediente per la trasmissione di effetti suggestivi, che sopperiscono alla carenza espressiva dei soggetti.

Da Vasari in poi la ricerca pittorica occidentale si è biforcata nelle due correnti del disegno e del colore, che facevano capo rispettivamente all’esemplarità di Michelangelo e Tiziano. Nel suo “Dialogo della pittura”, pubblicato a Venezia nel 1548, il critico Paolo Pino, un pittore di esigua fama, affermava per bocca di uno dei protagonisti del suo scritto, che se Michelangelo e il Tiziano fossero un corpo solo sarebbe personificato “il Dio della pittura”[2]. Nella pittura di Marco Demis la propensione tonale si sposa con la tradizione del disegno, secondo una linea che da Botticelli approda fino a Modigliani. Le figure disegnate dall’artista sono, infatti, perfettamente contornate, con linee che impediscono al soggetto di sconfinare atmosfericamente nello spazio circostante. Si tratta di una sensibilità che risponde all’esigenza di mantenere i soggetti nel campo dell’idealità, in una dimensione impalpabile, epifanica. Le sue bambine non si fondono mai con ciò che le circonda, ma anzi ogni oggetto è circoscritto sul piano semantico, poiché si offre allo sguardo come un’apparizione impermanente. Il meccanismo attorno al quale ruota il linguaggio di Demis è quello dell’evocazione, intesa come pratica che sottende un’ impalpabile rete di connessione tra le cose, qualcosa che “chiama” l’invisibile nella struttura del visibile. Evocazione significa, infatti, “chiamare fuori” o meglio “chiamare da fuori” qualcosa che suscita un senso d’ insopprimibile nostalgia. Come gli altari e le are sacrificali, le immagini dipinte dall’artista sono soglie dimensionali, ambiguamente sospese tra il mondo materiale e quello immateriale. In questo limen non vi è possibilità di narrazione, ma solo pura potenzialità. Guardando queste figure ci è impossibile immaginare un racconto, delineare un episodio. Demis sembra occultare ogni traccia biografica, ogni segno di vissuto, congelando la rappresentazione in una sfera perfetta quanto l’Empireo dantesco. E tuttavia, questo regno d’immobilità ieratica sembra subire ora una lieve increspatura. Qualcosa finalmente imprime un moto ai corpi. Una sottile vibrazione percorre le linee degli idoli e le posture divengono più plastiche, sinuose, le figure si ammorbidiscono e infine si avverte, come nel mito di Pigmaglione, un anelito a trasmutare il simulacro in carne viva.


[1] Ivan Quaroni, Italian Newbrow, pag. 111, Giancarlo Politi Editore, Milano, 2010.
[2] Julius Shlosser Magnino, La Letteratura artistica, pag. 242, La Nuova Italia Editrice, 1996, Scandicci (Firenze).

Euritmia

di Rebecca Delmenico

Catalogo - Collettiva Palazzo Guarienti, Valeggio

Euritmìa, termine che deriva dal greco εὐριϑμία nel quale troviamo le radici di εὖ «bene» e ῥυϑμός «ritmo», indica la disposizione armonica e proporzionale delle varie parti di un’opera d’arte. Con l’aggettivo euritmico si delinea un equilibrio incantevole che, nell'opera, cattura l’attenzione di chi la osserva ancor prima che egli sia entrato nell’ambiente in cui si trova, in un movimento così fluido ed elegante da sembrare quasi magico. Così appaiono le opere di Pino Deodato, Giorgio Tentolini e Marco Demis, che, nell’alveo dei media utilizzati nella propria ricerca, concordano negli esiti di un’arte figurativa che attrae perché evocativa di un altrove che affascina ma indirizza a una riflessione sui grandi temi della contemporaneità, sull'uomo e sul suo rapporto con un mondo che, se da un lato è iperconnesso dai social, dall'altro è fortemente sconnesso da un panorama in cui la proliferazione bulimica di immagini fa sì che il confine tra realtà e finzione venga meno e l'individuo si trovi preda di una crisi di valori che investe tanto la percezione di sé stesso quanto il rapporto con l'altro. Nella comunicazione della società odierna mancano il corpo e lo sguardo e con essi si perde l'empatia: è necessario tornare a quella profonda commozione che scaturisce dall'atto della comprensione oltre l'appagamento immediato dei sensi.

Nelle opere di Marco Demis ci troviamo in una dimensione fuori dal tempo, uno spazio sospeso abitato da presenze femminili primigenie che incarnano un ideale di celeste candore e purezza. Esseri chiusi in un empireo perfetto e compiuto, diafane apparizioni dal pallore lunare, lontane ed immutabili nella loro intima fissità. Figure simboliche, cui l'animo tende senza poterle afferrare, in quanto idee eterne e lontane.

Evidente il riferimento alla mitologia classica greca, alle ninfe, abitatrici delle fonti, dei fiumi e dei laghi (naiadi), delle foreste (driadi o amadriadi), dei monti (oreadi), e identificate dai Romani con le divinità indigeti delle acque e delle sorgenti.

Sovrastate da un paesaggio primitivo e monumentale, anime incastonate in una montagna che e' sacra perche´ inaccessibile. In questo scenario la presenza umana non è contemplata se non come orpello o vuota vestigia, quasi a sottolineare la pochezza e vanita' del mondano.

I corpi si animano talvolta in sottili gesti privi di referente, poiche' non vi e' un rapporto con l'osservatore, i soggetti sono colti in un momento di sospensione o stupore indefinito. L´opera si rinnova nel suo enigma irrisolto, senza morire con la sua apparizione: la narrazione o il rapporto con l'attuale sono volgarita' assenti.

E' questo un preciso intento di negarsi alla cultura pornografica contemporanea, volta alla sovraesposizione baluginante di anatomie e sentimenti, vana panoplia di immagini che scompaiono con la loro apparizione, conforme trasgressione il cui unico scopo e' la compulsione al consumo.

La seduzione nasce invece dal nascondimento della bellezza, suggerita dal gioco indefinito di veli, celata al pari di un ineffabile mistero. In questo senso le scelte di sobrieta´ formale e parsimonia espressiva fanno emergere una tensione che scaturisce da una intimita' taciuta e congelata.

La via delle forme

di Ivan Quaroni

Monografia - Anfiteatro Arte, Milano

In questo mondo tutto è forma e la vita stessa è un continuo mutare e defluire di forme. Quest’idea espressa da Balzac, ha trovato in Henri Focillon un fervido sostenitore. Per lo storico dell’arte francese, la forma incarnava e rendeva visibile il significato delle cose, esplicitandone la funzione o il destino. La descrizione delle forme diventava, in tal modo, un metodo oggettivo e non opinabile di trattare la materia artistica, che metteva lo storico al riparo dagli errori di un’ermeneutica soggettiva e irrazionale.

Il pensiero di Focillon, così com’è compendiato nel suo celebre Vie des formes, insisteva nel considerare l’opera come una forma sensibile, nata dal lavoro manuale e dall’applicazione della tecnica, intesa non come reiterazione abitudinaria di regole, ma come prassi capace di garantire alla mano e alla mente dell’artista una maggiore libertà creativa.

Le forme sono costrutti autonomi, che costituiscono l’unità di base dell’opera d’arte, esattamente come i morfemi nella grammatica di una lingua. Ma quando parliamo di forme, parliamo, inevitabilmente, anche di significati. Un’artista che non sia anche un formalista omette d’interessarsi al significato stesso di ciò che fa.

Marco Demis è, senza dubbio, un pittore formalista, un artista che opera nell’ambito della figurazione con l’attitudine di un astrattista geometrico. Osservando le sue opere, si ha, infatti, l’impressione che egli non sia affatto interessato alla registrazione di fatti ed eventi presenti e che il rapporto con il nostro tempo sia per lui qualcosa di pleonastico o addirittura irrilevante.

È un atteggiamento che non dipende dalle ambientazioni inequivocabilmente retrospettive dei suoi dipinti, poiché nemmeno il passato è l’oggetto della sua indagine. Il tempo e la narrazione, fattori fondamentali di molte delle attuali ricerche neofigurative, non sono presi in considerazione. Si tratta, infatti, di elementi dinamici, sottoposti al dominio della trasformazione e corruzione di tutte le cose. Nei dipinti di Demis, invece, tutto è immobile, cristallizzato, circoscritto con assoluta precisione. Le figure umane, gli oggetti, le architetture che abitano, anzi che “occupano” (poiché abitare è già un’azione dinamica) lo spazio dei suoi dipinti, corrispondono a simulacri, significanti, forme appunto. Il referente, il significato, il contenuto emotivo viene eliso dall’artista, omesso o sottaciuto come un terribile mistero. E tuttavia, le forme, con la loro eloquente evidenza, continuano a produrre sensi, espressioni, concetti. In quanto morfemi, come affermava Focillon, esse rilasciano significati e intrecciano tra loro silenti relazioni. Proprio sulla trama di rapporti e sulla corrispondenza tra simulacri, tra figure, l’artista milanese costruisce la struttura sintattica della sua pittura, che, nonostante la presenza di locuzioni preziose, perfino affettate, riesce asciutta, concreta, quasi impenetrabile.

Marco Demis è un artista difficile da leggere, finanche enigmatico, perché pone, tra le sue opere e l’osservatore, una distanza incolmabile.

I suoi dipinti non rivelano nulla della sua biografia, non esprimono contenuti emotivi. Benché virate in una gamma ridotta di cromie, che spazia dai grigi ai blu filtrando ogni sintagma della sua grammatica attraverso una lente di vaga, opalescente malinconia, essi si offrono al nostro sguardo incantato come gli equivalenti visivi di un enunciato filosofico o di teorema matematico.

Demis è un pittore freddo, razionale, direi quasi ossessivo nel reiterare temi e soggetti che solo saltuariamente arricchisce. C’è, infatti, in lui una sorta di parsimonia iconografica, che appare come il segno di una strenua volontà di concentrazione e di focalizzazione su pochi, meditati, lemmi.

Ciò che è vibrante, mosso è, piuttosto, il clima tonale della sua tavolozza, che è forse l’elemento più sensitivo della sua ricerca. Il resto è fatto di linee, di perimetri che staccano le figure dal contesto, fino a delimitarle in superfici isolate. L’insieme risulta, così, una sommatoria di strutture autonome, una conformazione di ordinati affastellamenti visivi, verso i quali l’osservatore è autorizzato ad esercitare il ruolo d’interprete e produttore di significati. L’ astenia espressiva dell’ artista è una scelta di campo, una predilezione verso l’aspetto squisitamente linguistico della pittura, che delega ad altri la spinosa questione ermeneutica. In definitiva, per Marco Demis, l’ eloquio è già una prerogativa delle forme, mentre l’ impulso che le origina resta gelosamente custodito nella coscienza individuale.

Una giornata grigio Demis

di Viviana Siviero

Monografia - Anfiteatro Arte, Milano

All’alba

Non sempre l’apparenza e l’essenza delle cose coincidono in maniera esteriore; a volte una rappresentazione fantastica cela un’aderenza al reale che un’immagine fotografica nemmeno riesce a sfiorare, nonostante l’impegno che mette nella simulazione esteriore. D’altro canto, una giornata grigia, non è necessariamente triste o nebbiosa, ma possiamo trovare in essa il tepore rassicurante di un’intimità che i colori ci impedirebbero di cogliere: Marco Demis prende per mano una surrealtà intima, quella dei sogni, dove non è necessario accadano cose improbabili, perché la deviazione è innescata da un semplice oggetto fuori posto. Realtà e surrealtà vengono combinate in modo da ottenere una composizione equilibrata ed esteriormente verosimile dinanzi alla quale è impossibile non abbandonarsi ad un viaggio che non necessita della ragione. Tutto è tracciato da un pennello che onora la semplicità, celando una complessità perfetta, priva di sovrastrutture inutili e un’atmosfera coerente che invece di appiattire esalta. Lo spettatore inizia, così, un viaggio stupefacente che, partendo dal mondo dei colori reali, giunge a quello della pura emotività per raggiungere l’interiorità nel tempo di uno sguardo. L’esteriorità e il suo espressionismo oggettivo, che ha bisogno di tutto per dire molto, si ritirano, scomparendo nella sintesi, che permette una concentrazione nitida che rifiuta lo strillio scomposto dei colori. Quell’ abbandonarsi fiducioso al mondo del bianco e nero e ai loro infiniti sussurrii intermedi prende per mano lo spettatore, dicendogli che una giornata grigio Demis è cominciata.

Sul mezzogiorno

È subito chiaro il fatto di essere in una realtà più reale di quella vivente, corrotta dal tempo: Marco Demis dipinge giornate che durano, ogni volta, una intera vita. Senza principio né fine, perché eterni sono i gesti e le loro conseguenze. Il tempo è dissolto più che bloccato; non uccide gli accadimenti come è per lo scatto fotografico che eternizza l’attimo negando le possibilità della realtà, ma piuttosto si scioglie in una promessa di vita perpetua. Il grigio e le sue variazioni, con il loro potere di annullamento, invalidano l’ ossigeno che alimenta la confusione, conducendo ogni evento verso l’intimità del pensiero.

Ciò che Marco Demis rappresenta con uno stile volutamente ingenuo e raffinato è un’ esperienza personale che non viene dichiarata; la comprensione del messaggio non si riferisce ad essa ma la utilizza come pretesto rappresentativo, come spinta emotiva. Le spiegazioni non sono da ricercare nella contingenza, ma piuttosto nel percorso che si compie per giungere ad un obiettivo, che sarà diverso per ogni viaggiatore e determinato dalle esperienze personali. Il medium è rappresentato da una riflessione trasposta sulla superficie bidimensionale attraverso la pittura: è a questo che gioca il segno, grafico e bambinesco, ma a ben guardare si scopre una gamma di inquietudini del tutto sconosciute all’infanzia ma non all’onirico. La melodia pittorica che emerge da questo incanto non cede ad alcuna stonatura: l’atmosfera è rarefatta, sospesa in una sensualità che pare al posto sbagliato perché emana da figure che sembrano bambole. Si intuisce però che nonostante la loro apparenza, per loro l’infanzia non sia che un ricordo, al di là di un cancello che lascia intravedere il passato attraverso i suoi voyeuristici arabeschi. La narrazione allo stesso tempo ermetica ed eloquente si rimette alla ieraticità di personaggi esili ed asciutti, dichiaratamente ideali e simbolici, messaggeri di azioni autobiografiche che non è importante identificare se non facendole proprie nell’esperienza personale. Se potessimo ferire i personaggi di Demis vedremmo che il loro sangue è fatto di frasi non dette o declamate con esiti impensati: le figure femminili che sono il fulcro visuale delle rappresentazioni sono il perno di un paesaggio immoto. È dal loro corpo che esalano le quinte simmetriche: il circostante entra a far parte del grande piano espressivo, acquisendo man mano, soprattutto tramite l’assenza di elementi che dovrebbero esserci, un’importanza sempre maggiore, che finisce per imprigionare la bambola-madre che l’ha determinato. Oggetti iconici ed inanimati, dal forte fascino simbolico, ma indecifrabili a causa della decontestualizzazione che hanno subìto, emergono da un universo auto-controllato, come fossero satelliti attratti da quell’umanità apparente che sembra risiedere completamente nel fulcro femminile. Così, tanto le cose animate, quanto quelle inanimate emergono dal medesimo gap, ancor presente nell’atmosfera come sostanza invisibile: il principio normalizzante di una realtà lontana, capace di generare il mistero ed unificare differenti nature sotto l’egida di una realtà emotiva più che oggettiva.

Al crepuscolo

La figura femminile ricalca un ideale estetico che genera le proporzioni circostanti, comportandosi come un tiranno nei confronti dell’ambientazione. Quest’ultima invece si carica di un ruolo rassicurante impersonando la sicurezza di un passato che si è già compiuto e che, nel bene e nel male, è impossibile da modificare. Questo passato si materializza nella definizione di monumenti vuoti come case disabitate, eretti con una monumentalità fragile che si contrappone alla fragilità monumentale delle figure, condotti tramite linee sicure, che emergono dal bianco infinito della superficie dove sono già presenti in essenza tutte le possibilità del mondo. Ogni foglio bianco è come una Biblioteca di Babele borgesiana: Demis individua in esso la propria verità, facendola emergere con una tensione misteriosa che ha la responsabilità dell’intera narrazione. È il disegno a mantenere il soggetto in una dimensione idealizzata: l’emotività del grigio si pone come un filtro malinconico che allude al passato non in senso narrativo, ma piuttosto ha il potere di traslarlo nel proprio presente inventato, simile ad un'impressione, per porsi in continuità con ciò che è stato. Spesso le ambientazioni rese belle dal ritmo matematico della composizione, sono solcate da cancellate ferrose che svolgono una doppia funzione di limite sensoriale ma anche decorazione del vuoto: spesso nei quadri di Demis vi è un’allusione esplicita – ora compunta, ora ironica – ad un concetto preciso di seduzione. Gli svolazzi delle cancellate, simili al pizzo della più sensuale biancheria intima femminile, fanno da sfondo a figure eteree dallo sguardo impenetrabile, portando alla mente rituali erotici che divengono, grazie all’immaginazione, possibilità reali. Jean Baudrillard affermava: «La seduzione non si basa sul desiderio o sull'attrazione: tutto questo è volgare meccanica e fisica carnale, nulla di interessante. […] Per la seduzione, infatti, il desiderio non è un fine, ma un'ipotetica posta in gioco. Anzi, più precisamente, la posta in gioco è provocare e deludere il desiderio, la cui unica verità è brillare e restare deluso [1]». Nelle opere di Demis, il gioco si pone come una ballata nei confronti di un percorso, più che di un fine da raggiungere: ciò che seduce l’artista e ciò con cui esso desidera sedurre è la ricerca del desiderio stesso. Una volta che l’obiettivo è conquistato, che la scintilla si è accesa, farà presto ad esaurirsi: il tempo di ardere velocemente dopo aver brillato la sua luce più luminosa, troppo rapida per paragonarsi all’intensità della conquista!

Nella notte

I molti elementi simbolici sono allusioni che muoiono su bocche immobili, feticci che ci aspettiamo si mettano a parlare, per dichiarare verità inimmaginabili: mongolfiere, gabbie, vecchi giochi, case che si immaginano abitate da vecchine prossime ad infestarle col loro spirito. Il passato e il presente, prossimo al proprio avverarsi coabitano, separati da cortine metalliche, invalicabili per il fisico ma non per lo sguardo. In tutta questa atmosfera non c’è affatto la densità della nebbia, non c’è quello sfumato “inventato” per dare una forma bidimensionale al reale invisibile. Nessuno stratagemma per perpetrare l’illusione, tentando di rendere la pittura ciò che non potrà mai essere: Marco Demis pone la sua attenzione su elementi più moderni; la sua intelligenza si rivolge alla natura degli accadimenti della vita, tutto il resto non è importante. Il suo metodo è impercettibilmente mutuato dalla lezione dell’Arte: Filippo Lippi e Botticelli, per giungere a Morandi e al primitivismo moderno di Sironi e Modigliani, passando per la pittura tonale di Bellini. Fondamentale la lezione di De Pisis per la sintesi perfetta fra matericità ed immediatezza e quella di Mark Ryden, per l’inquietudine e le ambientazioni. Il risultato è raffinatamente intellettuale e si nutre della ludicità di un segno grafico che si avvale delle possibilità dettate dall’utilizzo di tutto ciò che esiste fra il bianco e il nero, espandendosi nel mondo abitato, come un virus che si moltiplica non lasciando alcuna possibilità di guarigione perché – come diceva Baudrillard – le cose ci scoprono nello stesso tempo in cui noi scopriamo loro.

[1] Il destino dei sessi e il declino dell'illusione sessuale, 1992

Apollinea. Della luce chiarificatrice.

di Ivan Quaroni

Catalogo bipersonale - AreaB, Milano

Quando nel 1871 Friedrich Nietzsche pubblica "La Nascita della Tragedia Greca", introduce, per la prima volta, una diade concettuale - quella tra apollineo e dionisiaco - che in seguito riscuoterà un grande successo critico.

Per il filosofo tedesco, l’ apollineo attiene alla sfera dell’astrazione, declinandosi attraverso le arti figurative in immagini chiare e distinte, nitide e serene, mentre, al contrario, il dionisiaco è il campo dell’ ebbrezza e delle pulsioni irrazionali che si esprimono al meglio attraverso la musica. A quell’epoca, Nietzsche non poteva immaginare che le arti figurative, di li a qualche decennio, avrebbero attraversato un periodo di caotica e fertile rivoluzione, prima con i movimenti avanguardisti, poi con le evoluzioni formali e stilistiche occorse tra le due guerre. Se avesse scritto il suo celebre saggio più tardi, sarebbe stato costretto a rivedere alcune sue affermazioni. L’arte contemporanea, infatti, non solo ha accolto ogni tipo d’impulso dionisiaco e irrazionale, ma lo ha addirittura canonizzato in movimenti come l’Espressionismo, il Surrealismo, l’Action Painting, l’Espressionismo Astratto, Fluxus e molto altro ancora.

Dalle Avanguardie in avanti, l’ingresso del dionisiaco nel campo delle arti figurative, poi documentato da Jurgis Baltrušaitis anche in riferimento all’arte antica e medievale, avrebbe aperto le porte alla vexata quaestio che contrappone, ancora oggi, due distinti approcci creativi. Il primo, di matrice classica, concepisce l’opera come il prodotto di una volontà chiarificatrice, di un progetto estetico ordinato, che delinea forme limpide e definite, illuminate dal sole della ragione. Il secondo, invece, è espressione del lato oscuro, irrazionale, generatore d’immagini ambigue e indefinite, in cui si riflette l’elemento caotico, spontaneo e vitalistico dell’esistenza.

Marco Demis è un pittore puro, ossessionato dalle questioni formali e dalla definizione di una modalità espressiva rigorosa e puntuale. Il suo linguaggio è, infatti, il frutto di una elaborazione saputa, che riduce al minimo l’eventualità d’ imprevisti ascrivibili all’ambito del fortuito e dell’accidentale.

E, infatti, imbriglia il magma emotivo che soggiace alle sue creazioni nella rappresentazione di un mondo terso e cristallino, popolato di forme schiette, ordinate e di colori che variano lungo una ristretta gamma di azzurri e grigi. Nei suoi dipinti, ogni cosa, dalle case ai nudi femminei, dagli alberi agli oggetti, appare filtrata da uno sguardo geometrico, da una griglia che purifica e, insieme, dissangua le forme, costringendole in sicure linee perimetrali.

Si tratta di un processo di sintesi e di mondatura, necessario alla definizione di una dimensione aulica, entro cui disporre immagini ideali, private d’ogni contingenza. Tuttavia, sarebbe erroneo interpretare i suoi dipinti come proiezioni di un lontano universo platonico. Essi sono, piuttosto il risultato di un processo di sublimazione della realtà. Si ha quasi l’impressione che Demis cerchi nella pittura una tregua che la vita raramente concede. E, così, plasma modelli di una femminilità curiale, tanto eterea quanto impalpabile, corpi da sinopia neoclassica, ma, se possibile, di un erotismo ancor più raggelato. Poi costruisce paesaggi bucolici di matematica perfezione, in cui dissemina ritmi e simmetrie che circoscrivono la vegetazione in assetti ordinati. Gli stessi, al fine, che rastremano i tetti delle case e che cadenzano le sbarre di gabbie e voliere. Perché Marco Demis è, in definitiva, un artista innamorato della forma chiusa, un concettuale post litteram, che ha scoperto il segreto per regolare il caos, e trasformare le intemperanze emotive in una visione di placida bellezza e di languida, esangue voluttà.

Limbo

di Yamuna Illuzzi

Exibart - Personale Artcore Gallery, Bari

Limbo è il titolo della personale di Marco Demis, un nome che induce subito a collegare le adolescenti raffigurate, soggetti principali di ogni opera, a quella condizione di incertezza e sospensione che è il limbo nell’immaginario cattolico: per Dante è il primo cerchio dell’inferno, dimora delle anime senza peccato ma morte senza battesimo o di uomini giusti non cristiani.
Le alte pareti della galleria sono ricoperte di tele, di piccole e medie dimensioni e senza cornici, e fogli che sembrano strappati da un quaderno d’appunti.
In questi lavori algidi, eterei e senza tempo, né atmosferico né cronologico, le giovani presenze sono indiscrete, non mostrano alcuna particolare espressione facciale o corporale e, come nelle fotografie d’un tempo, sembrano in posa. Oltre a loro, compaiono oggetti, quasi sempre gli stessi: casette, bambole, alberi, cancelli.
Demis ammette d’essere un appassionato di Baudrillard e quindi d’apprezzare quelle opere che non muoiono nel loro disvelarsi ma che, ricoprendosi di veli, non mancano di stupirci ogni volta che le guardiamo, dicendoci sempre qualcosa di più, e restando sempre attuali. Forse è per questo che le sue tele, spesso composte di pochi elementi, a un primo sguardo paiono non dire nulla, se non del tratto e del segno pittorico, quasi una battaglia contro il mondo delle immagini e il loro darsi facile agli occhi di tutti.
Attraversando il corridoio bianco della galleria ci si sente osservati da tanti occhi, le giovani dipinte guardano sempre in camera. Inducono l’osservato a domandarsi cosa vogliano ed è facile cadere nell’errore di considerarle esponenti del mondo dell’infanzia e dei suoi diritti. Viene da pensare alla pittura antica, fatta di oggetti che sono simboli e rimandano sempre a qualcos’altro. Ma l’occhio contemporaneo non è abituato a queste sottigliezze, a questa indiscrezione che viene scambiata per freddezza. Se si aggiunge che siamo di fronte ad una pittura quasi monocromatica, basata sulle scale di grigio, solo talvolta con echi azzurrini, ne vien fuori un pittore complesso, che si può con facilità amare o odiare.
Alla galleria Artcore sono esposti lavori di Demis sia attuali sia meno recenti, ma costanti e ripetitive restano le sue immagini, queste ossessioni visive che lo rendono immediatamente riconoscibile.

Nuvole

di Francesca Pergreffi

Artribune - Personale Spazio Meme, Carpi


Il lavoro di Marco Demis si fonda sulla tensione fra l’espressione e il non detto. I soggetti sono bambine, ritratte come bambole aristocratiche dalla pelle color latte, dagli abiti retrò e dallo sguardo languido e stupito. Una umanità ingenua e ambigua, colta nella sua intima fissità priva di referente. Le figure sono sospese in uno spazio cupo e indefinito, sovrastato da un cielo plumbeo, privo di avversione o familiarità. Gli alberi sono secchi arabeschi, il terreno è freddo e coperto di brina, le case sono vuote e lontane. Ideali senza essere astratti, i soggetti si rapportano talvolta ad oggetti singolari e simbolici, dall’enigmatica utilità. Vecchi giocattoli di legno, gabbie di ferro, contemporaneamente vicini e distanti dal soggetto.
Nelle opere emerge una apparente ripetizione sul piano dei contenuti. La confidenza col linguaggio nasce dalla ricorrenza, conoscere è ri-conoscere. E il valore del soggetto ripetuto non sta nella sua identità (non ne possiede una) ma nel suo differenziale. Si evince in questo modo la qualità nella variazione dallo stesso tema, la bellezza da un criterio di confronto che vuole essere oggettivo. Cosa che invece non succede nel soggetto “inusuale”. L’insistenza sul soggetto che diventa “usuale” permette di far scaturire quella che Derrida definisce la “differenza irriducibile”. In mancanza di una costrizione, di una serialità la differenza è indifferente.

Rag dolls

di Glenda Cinquegrana

Exibart - Personale The Studio - Glenda Cinquegrana, Milano

Marco Demis è un giovane artista milanese, classe 1982, alla sua personale di esordio. La mostra realizzata per la galleria Glenda Cinquegrana: The Studio illustra il lavoro dell’artista attraverso alcune opere su tela e un’ audace installazione di disegni a tutta parete.
Il titolo della mostra, che letteralmente significa bambole di pezza, allude ad una pittura che mette al centro il tema l'infanzia: le bambole - bambine protagoniste della pittura di Demis, sono di pezza, dove questa è intesa come materiale primario. Le fanciulle costituiscono immagini archetipiche dell'infanzia stessa, vista quale condizione primigenia dell'individuo, ovvero come dimensione pura, senza condizionamenti: ingenuo è, secondo l’accezione latina, originario, naturale.
Le fanciulle - bambole sono ritratte in un particolare momento che è di sospensione, nello spazio e nel tempo. Esse sono rappresentate in uno stato nascente, ancora nutrite della placenta: immaginate come forme essenziali, sono concepite per restare ancora per un attimo immobili nella stanza incorrotta della pittura.
“L’altro giorno, in un caffè, un adolescente, solo, esplorava con gli occhi tutta la sala; a tratti il suo sguardo si posava su di me; in quel momento avevo la certezza che egli mi stesse guardando senza tuttavia essere sicuro che mi stesse vedendo. Stortura inconcepibile: com’è possibile guardare senza vedere?” (Roland Barthes).

Le figure infantili ritratte da Demis sono esseri umanamente imprigionati in se stessi, colti in uno stato di solitudine, quasi come fossero monadi chiuse, prive di spiragli di comunicazione con il mondo esterno. Lo sguardo che gettano sul mondo sembra insondabile, neutro.
La solitudine è per Demis un momento di sospensione storica: le bambole bambine, ermetiche e misteriose nella loro fissità, come nelle atmosfere delle pitture sironiane e dechirichiane, non rivelano a chi le guarda alcuna emozione.
“In effetti, egli non guarda nulla; trattiene dentro di sé il suo amore e la sua paura: ecco, lo Sguardo è questo.” (Roland Barthes).
La vuota espressività delle bambole di pezza è nella pittura di Demis paradigma della differenza che intercorre fra il guardare verso l’esterno ed il vedere verso l’interno. La comunicazione che queste creature instaurano con il mondo può essere interpretata come profondità di superficie (Deleuze): lo sguardo è un atto incompiuto, azione che si manifesta nel non guardare nulla. Lo sguardo non è altro che ripiegamento dentro di sé, come un trattenere e serbare dentro l'emozione.

La profondità di superficie è una condizione ricreata tramite una raffinata ricerca sul colore - non colore bianco, la cui ottusa espressività è volutamente ricercata: si tratta di un colore che solo raramente raggiunge le lievi tonalità pastello del giallo e del rosa antico. La sua matericità, ottenuta tramite la sovrapposizione di colate di materiale primario, punta che Marco Demis, attraverso i lavori esposti, sia rimasto concentrato su un solo, inossidabile punto di partenza creatore, senza spingersi a intuirne alcun modello teorico-formale conseguente. Le figure femminili che dipinge assomigliano a un tracciato netto e continuo di volti animati, soggetti illustrativi; fluide silhouette che dirigono i loro piccoli sguardi verso sogni rinchiusi poco più in là della loro gabbia prospettica di dotazione. Il pregio di queste rigide intuizioni compositive, di queste siberiane bambole di pezza rilascia a mano a mano, durante la visita, la sua genialità improvvisa, assumendo il carattere unico dell’appunto di viaggio: quello dato dall’essenzialità risolutrice della descrizione. I deliziosi soggetti esposti, infatti, carichi dall’intensità retrò di cui solo un artista radicale può restituirne al meglio l’intento primitivista, contengono al loro interno la trasparenza dello sguardo. La chiarezza che sola appartiene al registro scopico della fantasia, attraversata come una terra incolta che, da secoli e secoli, uomini e uomini ancora continuano a distruggere per costruire i loro castelli.